Il 22 ottobre è una data iconica per tutti gli appassionati di basket europei, e non solo europei, è il giorno nel quale ha visto la luce il talento più fulgido mai nato in un paese del Vecchio Continente; stiamo parlando, l’avrete capito, del “Mozart dei canestri”, all’anagrafe Drazen Petrovic, tragicamente scomparso, a soli 29 anni, in un brutto incidente stradale in terra tedesca.
“Il Diavolo di Sebenico”, altro soprannome di Drazen, ha segnato un passaggio di svolta nel basket europeo, portandolo da protagonista in quello che, a cavallo degli anni ’80 e ’90, era un mondo tanto lontano quanto luccicante, la mitica NBA di allora. Fu proprio Petrovic, con il suo talento incredibile, a far capire ai tanti soloni a stelle e strisce che anche un europeo poteva aver successo al di là dell’Oceano, arrivando a scrivere, nell’ultima stagione prima del tragico decesso, oltre 22 punti di media a partita, indossando la canotta dei New Jersey Nets.
Tanto per dire, il suo high score in carriera è di 44 (qua-ran-ta-quat-tro !!!!!) punti, infilati nella retina degli Houston Rockets. Ma D.D. non è soltanto il suo periodo NBA, ma anche i miracoli mostrati vestendo la maglia del Sibenik, la squadra della sua città, quella del Cibona prima e del Real Madrid poi, dove fece vedere cose mai viste prima. Memorabile la finale di Coppa delle Coppe 1989 contro Caserta, nella quale ai 44 di Oscar, Drazen replicò con un fenomenale “sessantello”, 62 per la precisione, di cui 11 all’overime, una delle prestazioni migliori mai viste su un parquet europeo.
Insomma, un giocatore leggendario, del quale poco, troppo poco si è scritto. Una lacuna che, già nel 2015, ha provato a colmare Stefano Olivari con il suo libro “Gli anni di Drazen Petrovic”, edito da Indiscreto.
Un libro piccolo soltanto nel formato, ma che racconta alla perfezione la parabola del “Mozart dei canestri”, di fatto diventando, come si legge nella seconda di copertina, la “biografia del giocatore più emozionante del mondo”.
Ed emozionante è proprio il termine corretto per indicare non solo la carriera di Drazen, ma anche il contenuto del libro, che di emozioni ne suscita, in chi legge, in quantità industriale. L’autore, infatti, ripercorre la vita e la carriera del campione riportando il lettore indietro nel tempo, facendo tornare alla mente, e nel cuore, ricordi che sembravano ormai dimenticati.
Ecco, allora, gli inizi in Jugoslavia, allora non ancora disgregata dalla guerra, nella natia Sibenik, al quale sono dedicato le prime 50 pagine del libro, forse le più interessanti perché raccontano un periodo meno conosciuto dell’asso nato slavo e morto croato. Bellissimo il secondo capitolo, intitolato Kamenko, dal quale esce anche un insegnamento per tutti i lettori; quello che il talento è tanto, ma non è tutto se si pensa che anche Drazen Petrovic, Drazen Petrovic !!!, ha avuto bisogno di lavorare duramente, svegliandosi ad ore antelucane per sedute in palestra prima della scuola, per migliorare il suo tiro da fuori.
Infatti, a 14 anni, il suo soprannome era proprio “Kamenko” – nella lingua croata il termine kamen significa pietra – proprio per la sua idiosincrasia al tiro da fuori. Ebbene, dopo pochi anni, ma tantissimo lavoro, il suo tiro era tra i più mortiferi del mondo, potere della abnegazione, della voglia di sacrificarsi e di gettare il cuore oltre l’ostacolo.
L’opera poi segue tutto il percorso di Drazen, le vittorie con Cibona e Real Madrid e l’approdo nell’allora quasi irraggiungibile NBA, con gli stenti a Portland ed i fasti con i New Jersey Nets, fino ad affermarsi come una vera e propria star, in barba alla incredibile mancata convocazione per l’All Star Game del 1993, quando Pat Riley gli preferì, ironia della sorte, un altro europeo, il tedesco Detlef Schrempf.
La fine della favola, in una piovosa giornata di giugno, il 7 giugno del 1993, chiude il racconto della vita di Petrovic, prima di una appendice che regala a “Gli anni di Drazen Petrovic” una marcia in più.
Nell’ultimo capitolo, dal titolo “Testimoni”, infatti, Stefano Olivari raccoglie, con interviste dettagliate ed altrettanto godibili, le testimonianze di quattro persone che Drazen lo hanno conosciuto, e vissuto, da vicino: il fratello Aleksandar Petrovic, visto anche in Italia con la casacca della Scavolini Pesaro, il giornalista Sergio Tavcar, ed i coach Niven Spahija, attuale tecnico della Reyer Venezia, e Bogdan Tanjevic, icona della pallacanestro moderna.
Chiudiamo citando le parole proprio di “Boscia” Tanjevic riportate nella quarta di copertina di un libro assolutamente imperdibile per gli appassionati di basket
“Una morte da giovani forse accresce il mito, ma lui un mito della pallacanestro lo sarebbe diventato anche rimanendo vivo”.
Le parole dell’autore
Ai microfoni di Basket World Life parla l’autore del libro, Stefano Olivari:
“Drazen Petrovic è stato per me un idolo assoluto, come possono esserlo soltanto i campioni di poco più vecchi di te: fratelli maggiori, modelli di vita, amici. Ho scritto la sua biografia oltre vent’anni dopo la sua morte, dopo avere intervistato praticamente chiunque lo abbia frequentato, il fratello Aco su tutti, ma ho cercato di mantenere uno sguardo distaccato e critico che non mi sarebbe stato possibile avere quando con altri fanatici di pallacanestro andavamo in trasferta a Zagabria per veder giocare il suo Cibona.
C’era ancora la Jugoslavia… Drazen è stato uno dei giocatori europei più forti di sempre: di sicuro è stato il più importante, il primo a guadagnarsi il rispetto degli americani quando nel 1989 fece il grande salto dal Real Madrid alla NBA. La sua unicità risiede anche nel fatto che lui non abbia avuto bisogno della NBA e nemmeno della morte da giovane, a nemmeno 29 anni, per entrare nel mito: lo era già da diciottenne nel Sibenka che vedevano su Telecapodistria raccontato da Sergio Tavcar.
Drazen Petrovic, come tutti i campioni con una sola dimensione (non aveva alcun interesse al di fuori della pallacanestro), è diventato un simbolo di tante cose e ognuno può quindi avere il suo Drazen personale: l’icona anni Ottanta, l’emblema degli ultimi anni dell’Europa generata dalla Seconda Guerra Mondiale, il sogno americano basato su informazioni frammentarie e miti più o meno falsi, l’uomo che supera ogni avversità e scetticismo, l’arrogante che si può permettere di esserlo, il compagno di tante ore felici.
La visita alla sua tomba, al Mirogoj di Zagabria, è stata una delle emozioni più forti della mia vita: un ragazzo eterno, forse addirittura un bambino eterno, che ha consentito a una parte di noi di non crescere e di rimanere pura, incontaminata”.