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Dal mio osservatorio fatto di incontri con genitori, atleti, allenatori e da quello che osservo sulle tribune durante le partite, noto con rammarico la tendenza a semplificare, a dare giudizi, ad esprimere opinioni sulla base di pochissimi elementi spesso non suffragati da fatti reali e molto spesso legati a luoghi comuni frasi fatte e pregiudizi di vario genere.

Anche nella vita di tutti i giorni noto, e mi assumo la responsabilità di quello che dico, il sempre minor valore dato alla complessità intesa come rinuncia ad una comprensione più profonda di quello che ci circonda in favore di una forma di semplificazione, più veloce, meno dispendiosa, ma soprattutto meno disponibile al ragionamento, al dubbio e alla riflessione.

Complessità e semplificazione nel basket

Lo sport, e quindi anche il basket, non è esente da questa mia riflessione. Gli allenatori, ovviamente non generalizzo, si muovono sul terreno della richiesta di un impegno sempre maggiore da parte degli atleti in allenamento ed in partita e se non c’è risposta spesso ci sono dure prese di posizione se non addirittura punizioni o mancate convocazioni

I giovani atleti, che fino a poco tempo fa erano affidabili, se per qualche motivo iniziano a essere deficitari nelle loro prestazioni vengono avvicendati o emarginati senza cercare di capire cosa stà accadendo, semplificando con frasi tipo: “in questo periodo non c’è con la testa”; “chi si crede di essere”; “non ha più voglia di allenarsi”.

Atteggiamenti non ritenuti consoni, ma comprensibili in atleti in formazione, come ritardi, espressioni verbali e non verbali non adatte, scarsa concentrazione etc.. vengono risolte con urla, rimproveri e riunioni senza fine che spesso non risolvono il problema. I genitori sono spesso scontenti per lo scarso utilizzo del proprio figlio. Altri contestano scelte tecniche e tattiche degli allenatori.

Alcuni intervengono sul giovane atleta in difficoltà, anche se col nobile scopo di aiutare il ragazzo, proponendo soluzioni improvvisate, dettate dal desiderio che non ci siano delusioni o scontento, senza far maturare i tempi e senza analizzare con attenzione le varie circostanze. C’è addirittura chi impone scelte drastiche: o studi o non vai più o giocare.

I giovani atleti, che sono in una importante fase di crescita personale, sono disorientati, in balia degli eventi, talvolta vogliono smettere o cambiare squadra.
Le Società sportive impongono regole talvolta molto rigide che le stesse poi fanno fatica a far rispettare.

Fermarsi e ragionare

Mi chiedo allora: sarà forse opportuno per noi addetti ai lavori fermarsi un momento, provare a ragionare sulle varie situazioni analizzando quello che accade da più angolazioni?

Chi pratica sport a livello professionistico, sto parlando sostanzialmente di club di Serie A, lavora su settori giovanili finalizzati ad ottenere risultati ossia vincere campionati, e creare giocatori di alto livello per la prima squadra o in second’ordine da immettere sul mercato. L’agonismo, la selezione e le gerarchie dai 15 anni in poi iniziano ad essere sempre più reali e consolidate.

Mi chiedo: in questo pur giustificabile progetto, quanti ragazzi vanno incontro a disillusioni che non sempre riescono a recuperare?

A queste Società richiedo chiarezza: vuoi giocare con noi? Sappi che può accadere che tu non metta mai piede in campo, che tu debba rinunciare a buona parte del tuo tempo libero, che tu debba studiare nei ritagli di tempo. Anche la famiglia deve essere informata e la domanda successiva sarà: ve la sentite?
Non è detto che basti, ma almeno la chiarezza potrebbe togliere alcune possibili future frustrazioni.

E le Società cosi dette minori, la vastissima galassia delle Società non professionistiche, siamo sicuri che siano chiare e precise nei loro intenti rispetto ai giovani atleti? Al momento dell’incontro con allenatori e dirigenti al ragazzo e, quando presente, alla famiglia di solito viene detto: “Siamo contenti che tu venga a giocare con noi, vogliamo dare spazio a tutti, la vittoria non è fondamentale, certo ci piace vincere, ma vogliamo che tutti si divertano“.

E allora perché sopra di 20 punti Pippo deve giocare solo 3 minuti? Perché per una difesa sbagliata o un tiro affrettato il giocatore viene subito cambiato? Non è sbagliato giocare per vincere, è lo stesso spirito dello sport che lo richiede ed i ragazzi per primi ne sono consapevoli, ma non facciamo promesse che non potremo mantenere. E poi come giustifichiamo a Pippo, che ricordiamo è ben conscio di non essere tra i più bravi, che ha giocato solo tre minuti in una partita dall’esito scontato già dopo i primi due tempini?

Scuola e sport

Voglio spingermi oltre e parlare della scuola. Chiedo spesso ai ragazzi e agli insegnanti il loro pensiero sulla scuola e dalle loro parole ne viene fuori che ha rinunciato a formare persone senzienti, cittadini consapevoli nella ricerca di soddisfare un mercato del lavoro sempre più esigente.

Scrive Giovanni Floris:La scuola è in grado di determinare il futuro di un cittadino: anche negativamente. Se non fornisce gli strumenti adeguati per realizzarsi, insegnerà la frustrazione. Se non offre modelli positivi di autorità, insegnerà il disprezzo per le istituzioni”.

Vogliamo che lo sport, altra grande agenzia educativa, faccia lo stesso? Tutti i protagonisti dello sport, ognuno nel proprio ruolo e nessuno escluso, dovrebbero evitare di lasciarsi scivolare addosso le loro responsabilità adottando la via più semplice e veloce per risolvere i problemi ossia la semplificazione: Pippo è svogliato, non si impegna, è irrispettoso, arriva in ritardo, ha sempre la faccia scontenta? E’ un problema suo. Deve imparare a mettersi in riga. Le regole sono fatte per questo. Se non ha voglia che smetta.

Il tempo per crescere

La realtà è più variegata e richiede pazienza e capacità di analisi: è necessario essere autorevoli, ma sinceri, spiegare le scelte, discuterle con i ragazzi, scontrarsi con loro ma rispettarli e soprattutto rispettare il loro modo di essere, essere attenti ai loro cambiamenti e stargli vicini nei momenti di difficoltà sportivi ed umani.

I “meno bravi” devono avere tempo per crescere. A 15 anni non si è giocatori fatti, ognuno ha il diritto di avere il proprio tempo di crescita tecnica fisica ed umana. Non dobbiamo, noi educatori a vario titolo, avere paura della parola complessità. Il dubbio, la riflessione, l’attenzione, il mettere in discussione fanno crescere la creatività e la consapevolezza nei ragazzi nella vita come sul campo da basket.

Il ragazzo che sceglie di fare sport vuole diventare un campione, ma è compito di noi adulti far si che non sia quello l’obiettivo principale. Se poi lo diventerà saremo tutti felici per lui.
Il libro di Giovanni Floris si intitola “Ultimo banco” ed. Solferino

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