Un pugno nello stomaco, con un pallone di basket sullo sfondo, ma con un lieto fine, in queste poche parole c’è la perfetta sintesi di Klod, il cortometraggio di Giuseppe Marco Albano disponibile su Raiplay. 15’ di emozione pura, che fanno trasalire anche chi di pelo sullo stomaco ne ha in quantità industriale.
Direte voi, e cosa ci azzecca il basket, se non per la palla a spicchi accarezzata come fosse una reliquia dal piccolo protagonista dello short-movie? C’entra, c’entra tantissimo, perché il film è ispirato alle reali vicende di uno che il basket ce l’ha nel sangue e l’ha giocato ad altissimi livelli, tanto da risultare il primo albanese a giocare nella Serie A italiana.
Stiamo parlando, i più appassionati l’avranno capito, di Claudio, Klod appunto, Ndoja, uno che vanta una carriera di primissimo livello nel nostro panorama cestistico nazionale.
Tanto per capire, uno che si è meritato, per le sue doti di gran combattente, da cui il soprannome di gladiatore, il titolo di capitano della Virtus Bologna, una delle squadre più blasonate della nostra pallacanestro, non una società qualunque. Proprio dalle vicende del giocatore albanese tra ispirazione il regista, quelle vicende mirabilmente raccontate nel libro “La morte è certa, la vita no” di Michele Pettene, che racconta con dovizia di particolare, proprio la storia, più unica che rara, di Klaudio Ndoja.
Tornando al film, un quarto d’ora che ti rapisce, ti tiene incollato allo schermo, ti fa rabbrividire, anche avere paura; di fatto il cortometraggio è la storia sul come Ndoja e la sua famiglia arrivano in Italia, pagando quattro milioni ai trafficanti di persone, lasciando ogni cosa alla ricerca di un domani migliore, anche gli affetti più cari, come la nonna, che in uno struggente passaggio parla con l’attore che impersona un giovane Ndoja regalando al nipote una cospicua somma che Klod consegna ai trafficanti per salvare la vita di un giovane bimbo, particolare che la dice lunga sulla statura morale del personaggio già da imberbe ragazzino.
E poi, il fermo dello scalcinato furgoncino sul quale viaggiavano da parte della polizia albanese, il tragitto in mare sotto la perenne minaccia dei Kalashnikov puntati fino alla costa pugliese, raggiunta non su una barca, pur rabberciata, ma addirittura a nuoto, con Klod il primo ad essere costretto a gettarsi nell’Adriatico, sempre tenendo in mano l’amata palla a spicchi, compagna fedele di un’adolescenza, impensabile per i nostri ragazzi, fatta di tante privazioni, di tante minacce schivate, e di altrettanti problemi.
La scena che sembra chiudere il film, quella nella quale Klod consegna l’amato pallone ad un ragazzo pugliese che, in un moto di grande empatia ed altrettanta solidarietà, lo invita ad allenarsi all’oratorio, sembra la fine di un sogno, quello di affermarsi nel basket, ed il duro ritorno ad una realtà di stenti, fatta di lavori sottopagati e di sfruttamento, complice l’essere clandestino in un paese amico, ma comunque straniero.
Invece, quando pensi, con il cuore stretto dall’emozione, alle peripezie passate da questa povera famiglia, e, d’altro canto, a quanto possano ritenersi fortunati i nostri figli o nipoti che hanno tutto o quasi, ecco spuntare, radiose come il sole d’estate a mezzogiorno, le immagini, quelle vere e non recitate, di Ndoja cestista, con le casacche di Brindisi, in quella Puglia che lo ha accolto dopo un viaggio che fa accapponare la pelle, tanto più pensando che sono decine di migliaia ad aver fatto lo stesso, pericoloso, tragitto, di Jesi, della Virtus Bologna e poi la stretta di mano con un sorridente Papa Francesco, come perfetto esempio di integrazione, quella integrazione che purtroppo anche oggi, 25 anni dopo il periodo nel quale è ambientato lo short-movie, è purtroppo ancora lontana a realizzarsi del tutto.