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La biografia di Scottie Pippen, scritta a quattro mani con Michael Arkush, edita in Italia da Rizzoli, trae, a nostro parere, le proprie origini dalla fortunata serie televisiva “Last Dance”, visibile su Netflix, bellissima, ma ritenuta da molti troppo jordanesca.
Sarà un caso che a ridosso della serie siano uscite le biografie di Scottie e di Dennis Rodman? A nostro parere, no, a maggior ragione dopo aver letto le parole di Pippen che, fin dalle prime pagine, specifica chiaramente che con MJ non ha mai avuto un rapporto di amicizia. Dalla lettura dell’opera, si notano critiche, spesso velate, talvolta chiarissime, al ruolo di Michael Jordan che, in tutte le 280 pagine, appare una sorta di convitato di pietra.
Attenzione, non è una sorta di gelosia, come si potrebbe pensare, tanto che Scottie lo definisce “l’uomo dell’ultimo tiro”, ma una presa di distanza da un modo di essere che non è il suo, tanto che dice “no, non volevo essere come Mike”, accusato di essere troppo duro e brutale verso i compagni di squadra.
Uomo squadra per eccellenza
Scottie, invece, è diverso, vive della e nella solidarietà verso chi gli è accanto; lo ha fatto fin da quando era bambino prima ed adolescente poi, lo ha fatto nella sua esperienza come giocatore. Un modo di essere influenzato chiaramente dalle sue origini, cresciuto in una famiglia umile, con undici tra fratelli e sorelle, in gravi difficoltà dopo i problemi di salute del padre. Lì capisce che i problemi si risolvono tutti assieme, in gruppo e non con pericolose fughe in avanti.
In quelle circostanze, ben più gravi di una partita di basket, ancorché della mitica NBA, in lui il concetto di gruppo diventa più importante di quello di singolo. Il singolo deve sempre mettersi a disposizione del gruppo, ma deve farlo continuando a migliorare. Non è certo un caso che, su un parquet NBA, raramente abbiamo visto Scottie forzare un tiro.
La carriera
Mai Scottie avrebbe pensato di diventare una stella NBA, lui cresciuto in una piccola cittadina dell’Arkansas – Hamburg, appena 3000 anime -, senza neanche avere, gracile e mingherlino, il “Physique du ruole”. Invece ci è riuscito, grazie ad una inattesa borsa di studio ricevuta da Arkansas, ed alla grande disponibilità evidenziata in ogni sua esperienza, di vita e di sport.
Il libro affronta, a volte anche in maniera cruda, tutta la sua vita, con le difficoltà dell’infanzia, i traumi per l’ictus che ha colpito il padre costringendolo alla sedia a rotelle e poi per la paralisi del fratello Ronnie, a causa di una avventata mossa di wrestling di un compagno di classe.
Traumi che per certo lo hanno segnato – “a seguito di quanto avvenuto a mio fratello, sono stato anni con il timore di infortunarmi” – ma che non lo hanno piegato, anzi sono stati di stimolo per arrampicarsi verso sempre più alte, nonostante spesso, quasi sempre …., i suoi successi venissero attribuiti a MJ. Del resto, non è un caso che, nei Bulls, fosse in cima a tutte le statistiche, a parte i punti segnati, nei quali comunque era secondo al solo Jordan.
Il messaggio
Al di là delle polemiche, degli aneddoti, delle considerazioni su una vita da una parte dura, dall’altra fortunata, degli errori e delle soddisfazioni, il libro lancia un bel messaggio a tutti i lettori, a maggior ragione a quelli che di Pippen hanno solo sentito parlare; racconta, infatti, come il non arrendersi mai, il credere e l’aiutare chi ti è vicino, sia un familiare o un compagno di squadra, non solo aiuta, ma diventa fondamentale per raggiungere il successo, nello sport ma soprattutto nella vita.
L’autore
Scottie Pippen nasce ad Hamburg, nel 1965, da una famiglia di umili origini. Dopo gli anni al College, con Arkansas, nel 1987, sbarca, come quinta scelta assoluta, nella mitica NBA, scelto, con una geniale intuizione dal g.m. dei Bulls, il pittoresco Jerry Krause.
È l’elemento che mancava ai Bulls per creare una dinastia, quella che tutti pensano di Michael Jordan, ma che non è stata solo di MJ; con i “Tori” vince sei titoli in otto anni, ai quali aggiunge anche due ori olimpici. Un palmares sensazionale per un giocatore che, nonostante i 16,1 punti segnati in carriera, è universalmente riconosciuto come uno dei migliori difensori mai apparsi sul dorato palcoscenico della NBA.