La storia dello sport, ma anche della vita, è piena zeppa di atleti e squadre che hanno dominato un’epoca, rimanendo indelebilmente impressi nella mente di tutti gli appassionati. Il basket non fa eccezione, tutti ricordano i Boston Celtics di Bill Russell, i Lakers di Magic Johnson e le loro lotte all’ultimo sangue con i Celtics di Larry Bird, ed i Bulls di Michael Jordan; talvolta però nella storia e nell’immaginario collettivo rimangono anche i perdenti, quelli che arrivano ad un passo dallo scrivere la storia, ma poi non ci riescono.
Ecco, una di quelle squadre sono sicuramente i New York Knicks degli anni ’90, arrivati a tanto così da riportare nella “Grande Mela” il titolo di campioni del mondo, l’ultimo dei quali risale, tuttora, alla lontana stagione 1972/73, quella in cui NY, guidata dal mitico Red Holzman regolò in finale i Lakers. Erano i Knicks di Walt Frazier e Dave DeBusschere, di Earl Monroe e Willis Reed, ma anche di Phil Jackson, proprio “quel” Phil Jackson, e dei due futuri italiani John Gianelli – pilastro dell’Olimpia Milano – e Harthorne Wingo, visto a Cantù.
20 anni dopo quei trionfi, una squadra di New York riporta la città simbolo dell’american dream in finale; nonostante il suo coach sia il patinato Pat Riley, l’artefice dello “ShowTime” dei mitici Lakers, quei Knicks sono una squadra dura, durissima, che di fatto raccoglie l’eredità dei “Bad Boys” dei Detroit Pistons, quelli, per intenderci, di Isaiah Thomas, Mark Aguirre ed il terribile Bill Laimbeer, in gioventù visto anche a Brescia.
Giocano duro, molto duro, adeguandosi al gioco duro allora in voga nell’NBA e sfiorano in due occasioni il tanto sospirato anello. Trascinati in campo dal pivottone Patrick Ewing, uno uscito da Georgetown, marchio di fabbrica di assoluto prestigio, dal grande difensore e rimbalzista Charles Oakley e dal muscolare John Stark si arrendono nel 1994 agli Houston Rockets, perdendo gara 7, e nel 1999 ai San Antonio Spurs delle “Twin Tower” Tim Duncan e David Robinson, con Allan Houston, Latrell Sprewell e Larry Johnson a far da spalla al totem Pat Ewing.
Le due finali perse non sono le uniche perle di una squadra che arriva “ad un passo dall’immortalità, senza mai riuscire ad assaporarla”, ma che comunque si ritaglia un pezzo nella luccicante storia della NBA, per il suo modo di incarnare il volto più duro e cattivo della lega, tanto da indurre la NBA a cambiare le regole d’ingaggio in campo.
Non giocavano un basket scintillante, i blu-arancioni di Pat Riley prima e Jeff Van Gundy poi, ma hanno fatto innamorare milioni di tifosi, affascinati più che dal talento, che pure c’era, dalla grande abnegazione di una squadra che affrontava ogni partita come fosse una finale, e proprio per questo arrivata ad un passo dal paradiso.
Una storia senza il lieto fine, il tanto agognato titolo manca dalla città che non dorme mai da oltre mezzo secolo, perfettamente raccontato da Chris Harring, nel bel libro “Sangue al Garden”, edito da 66thand2nd, un nome una garanzia, titolo perfetto per identificare quello che era lo spirito vincente dei Knicks degli anni 90.
Un volume, come quasi sempre in quelli scritti da autori americani, ricco di curiosità, aneddoti e particolari che ripropongono le imprese, ed anche le delusioni, della squadra che, nella storia della Lega, forse più di ogni altra è stata in grado di andare oltre i propri limiti, rimanendo per questo impressa nella memoria degli appassionati dell’epoca, quelli con i capelli, se li hanno ancora, sale e pepe, che le guerre, perché quelle erano le partita di Ewing e compagni, le hanno vissute in prima persona, magari alzandosi in piena notte, come faceva chi scrive, per vederne in diretta le partite, piratando il segnale, in rigoroso sistema NTSC, di una vicina base americana.
Insomma, un bel libro, ben scritto e ben tradotto da Lorenzo Vetta, che farà venire i brividi a chi quel tempo lo ha vissuto ed appassionerà i più giovani, nei quali passerà il messaggio, il bel messaggio, che si può arrivare a tanto così dal successo anche senza essere baciati da un talento sovrumano, ma con tanto lavoro ed altrettanta abnegazione.
Unica nota di un’opera imperdibile, il fatto che le fonti siano raccolte in calce al libro – nella bellezza di 36 pagine, il che la dice lunga sul mastodontico lavoro di ricerca dell’autore – e non richiamate in fondo alla pagina cui la fonte si riferisce.
L’autore
Chris Herring è un giornalista sportivo americano che scrive di NBA su “Sports Illustrated”. Nel corso della sua decennale carriera ha collaborato anche con ESPN, “FiveThirtyEight” e il “Wall Street Journal”, dalle cui colonne, per sette anni, ha seguito le sorti dei Knicks come Bob Woodward e Carl Bernstein la Casa Bianca di Nixon, come ha scritto il “New York Time”. Vive a Chicago ed insegna alla Medill School of Journalism della Nortwestern University di Evanston, Illinois. Sangue al Garden, inserito da Obama nella celebre lista delle sue letture del 2022, è il suo primo libro.